Killers of the flower moon – Martin Scorsese

Quando leggi che le candidature all’Oscar per Killers of the flower moon di Scorsese sono addirittura 10 tra cui le pesanti “Miglior film” e “Miglior regia”, allora ti chiedi se hai mai capito qualcosa di cinema.

Il film con Dicaprio, a suo agio nei panni del redneck Ernest Burkhart, un reduce dalla I guerra mondiale, scarpe grandi e cervello non fino, ha una durata di 206 minuti e tende a sfinire anche lo spettatore più paziente, volenteroso, terzomondista e progressista. Soprattutto l’eterna introduzione sul contesto storico e sociale (la riserva degli indiani Osage negli anni 20 del secolo scorso), rischia di fiaccare l’amore che si nutre per il buio in sala.

Lily Gladstone, anche lei candidata agli Oscar come migliore attrice protagonista, recita bene la parte della moglie di Dicaprio donando al ruolo drammaticità e compassione; mentre Robert De Niro appare la caricatura dell’attore che fu (non per le indiscutibili capacità, quanto per scelte che negli ultimi 20 anni hanno spiazzato i suoi fan e reso la sua faccia un puzzle di personalità che spazia da Max Cady a Ti presento i miei).

La seconda (o è la terza?) parte del film aumenta leggermente di ritmo (non che fosse difficile), e anche un briciolo di azione entra nel film oltre la didascalica e aulica descrizione della cultura Osage e delle angherie da essi subite per mano del perfido uomo bianco.

L’intento di Scorsese è nobile, dona al pubblico una triste pagina di storia, ma la domanda mi rimane in testa: è una pagina di buon cinema?