George Langelaan – Regressione

C’è un vecchio che sta morendo. Medici e infermieri, in camice bianco, si danno da fare intorno al suo letto. Su un vassoio di metallo tintinnano degli strumenti. Gli viene infilata una siringa nel braccio. Le voci soffocate, intorno a lui, sembrano quelle che sentiva da bambino, quando si addormentava tra le braccia della mamma. Gli ficcano un tubo in gola. Un rumore metallico, poi lo spingono, su una barella, in un lungo corridoio, stretto e buio. Molto in alto al di sopra di lui brilla una luce. Essendo steso, può vederla bene. Sente una voce, la voce del suo primogenito: «È ancora cosciente?». «In realtà no. È già lontano, molto lontano, sa…». Il corridoio è diventato ancora più stretto, la luce sopra di lui ancora più lontana. Poi le voci si spengono. A un tratto si rende conto che non vede più niente, non sente più niente, non prova più niente. È buio. Arriverà qualcuno? Qualcuno riaccenderà la luce? C’è ancora qualcuno accanto a lui? Sono sempre intorno a lui, i suoi figli e gli altri, a osservare la sua faccia cerea e a chiedersi se dietro quella faccia, molto lontano, irraggiungibile, sussista un barlume di coscienza? Tenta di alzare una palpebra, non ci riesce. Di gridare, ma non sente la propria voce. Chi lo sentirà se lui stesso non può sentirsi? È in coma? O invece è morto? Quello che gli sta accadendo non è semplicemente la morte? Ci ha appena pensato che già sa la risposta: è proprio così. È la morte. «Sono morto». Ma se può ancora pensare di essere morto, significa che il suo cervello funziona ancora, che il suo sangue continua a irrorarlo, che il suo cuore non ha smesso di battere. Gli viene l’idea che la parte di lui che è rimasta cosciente, che può dire «sono morto», che può dire «io», è la sua anima, è la parte di lui che non può morire. Lo hanno già seppellito? Non prova nessuna sensazione, non c’è modo di saperlo. Né di situarsi nello spazio, né di misurare il tempo. È spaventoso. E la cosa più spaventosa è essere ancora cosciente. Se solo potesse perdere coscienza! Se solo potesse spegnersi tutto. Se solo potesse almeno dormire. Dormire, sognare forse… Per addormentarsi cerca di contare le pecore. Con calma, senza fretta, più pecore di quante ne potrà mai contenere l’Australia. Conta, conta, conta, e arriva il momento in cui si accorge di essere arrivato a 998 milioni di pecore. 998 milioni di pecore che ha visualizzato e che ha contato una per una, che ha guardato una per una saltare lo steccato in un prato inondato di sole. Se si conta una pecora al secondo, il che sembra ragionevole, sono 60 pecore al minuto, 3600 all’ora, 86.400 pecore al giorno, il che significa che un milione di pecore corrispondono circa a dodici giorni e con quasi un miliardo si arriva a 12.000 giorni, vale a dire circa trent’anni. Era convinto che fosse passata mezz’ora e invece è da trent’anni che sta contando le pecore. Cazzo. È chiaro, se non vuole impazzire, deve smettere di contare le pecore e trovare un’altra occupazione. Ma quale? Rivivere tutta la sua vita? Dedicare l’eternità a un’eterna autobiografia? Avrebbe tutto il tempo di entrare nei particolari: potrebbe impiegare un secolo per raccontarsi una colazione di un quarto d’ora. O invece ripetere all’infinito un mantra, come fanno i mistici? Concentrarsi su problemi di scacchi? Rifare mentalmente la forma di tai chi, avendo davanti a sé tutto il tempo di diventare un grande maestro? Ricordare i letti in cui ha dormito, i vestiti che ha indossato, le case in cui ha vissuto, il contenuto di ogni cassetto di tutte le case in cui ha vissuto? Rievocare tutte le volte che ha fatto l’amore? E con chi, e in quali posizioni? Passare l’eternità a masturbarsi senza sesso, senza corpo, senza sensazioni? Strana cosa, essere morto e non perdere la coscienza di se stesso. Prigioniero della prigione più perfetta: quando si è solo coscienza, non si può scavare un tunnel per evadere. Quello che invece è possibile, quando si è solo coscienza, è immaginare di scavarlo, il tunnel. Allora si dà da fare. Decide di costruire, da solo, mentalmente, dal fondo della sua tomba, se come crede è stato seppellito, un ponte sopra la Manica che collegherà la Francia e l’Inghilterra. Innanzitutto elabora un progetto. Poi inizia a costruire, e poi si accorge che non funziona, e ricomincia daccapo perché si è dimenticato di tener conto delle maree. Non salta nessun passaggio, se per eseguire un certo lavoro servono dieci persone, lui sarà di volta in volta ciascuna di loro. È il palombaro a cui si stacca il tubo dell’ossigeno e il sub che salva il palombaro dall’annegamento. È tutti, è dappertutto, ha tutto il tempo. In meno di qualche millennio il ponte è terminato. È più produttivo che contare miliardi di miliardi di pecore, più soddisfacente. Così, si lancia nella costruzione di una nuova città, più grande di Brasilia. Realizza ogni singolo edificio, ogni blocco di cemento, ogni maniglia di porta, ogni interruttore, il circuito elettrico che aziona ciascun interruttore: non manca niente e, anche se esiste solo nella sua mente, funziona tutto. Perché, allora, non mirare ancora più in alto? Perché non creare la vita? Ma come si fa a creare la vita? C’è un unico modo: creare una cellula. Sebbene di embriologia ne sappia ancora meno che di architettura, non può delegare niente a immaginari assistenti, deve fare tutto da solo. Sa soltanto che una cellula, dividendosi, forma altre due cellule, che a loro volta si dividono finché non formano un insieme abbastanza grande da poter essere osservato al microscopio. Ma mica è facile trasformarsi in una cellula quando quello a cui si è ridotti, quello che ancora si può chiamare sé, è infinitamente più piccolo e immateriale di una cellula. Per aumentare di un miliardo di volte bisogna concentrarsi. Allora si concentra. Convoglia tutta la sua coscienza in un unico punto che a poco a poco comincia a ingrandirsi e diventa una cellula, si divide in altre due, che si dividono a loro volta, finché questo insieme di cellule non diventa una specie di corpo rudimentale, capace di muoversi in uno spazio e provare sensazioni. Sente quello che deve sentire un astronauta quando, dopo un lungo viaggio interstellare, tocca terra. Tocca terra. Atterra. Non ha preso fuoco, non è morto, è felice. Non ha una bocca per ridere e gridare di gioia, non ancora. E a un tratto, invece, si rende conto che ne ha una – un’apertura, una fessura che diventerà una bocca con dei denti e una lingua. La sua coscienza ormai risiede in un cervello, fatto di cellule e collegato a una massa ancora informe, una specie di sacco che ben presto avrà delle membra, degli organi, un sesso, un buco del culo, e tutto questo sarà lui. Ora può addormentarsi. E infatti dorme, un sonno perfetto e felice. Non c’è niente di meglio di questo sonno, niente di meglio che essere immerso nel dolce calore delle acque amniotiche. È un embrione, ben presto sarà un corpo che scrupolosamente continuerà a diversificarsi e a crescere. Il corpo di chi, di cosa? Non lo sa ancora, ma poco importa: quale che sia, vivrà la vita che gli è data. Se è destino che esca dalla matrice sotto forma di formica, nessun problema, sarà una formica, qualsiasi vita andrà bene. Non ha la minima voglia di uscire dal samsara, tutto quello che vuole è essere di nuovo vivo. Ma è fortunato: è un feto, ben presto sarà un cucciolo di uomo, che già comincia a scalciare. Arriva il momento terrificante in cui l’ambiente caldo e liquido in cui sonnecchiava placidamente si svuota di colpo: è come essere in un sottomarino che affonda. Finisce sott’acqua ma non annega. Imbocca un tunnel buio, caldo e appiccicoso. Non riesce a respirare: non c’è da stupirsi se molte persone rivivono questo momento nei loro incubi. Sente dei rumori, delle voci. I rumori, le voci che mentre moriva diventavano sempre più fioche, ora sono sempre più vicine. O meglio, è lui che è sempre più vicino a loro. Il tunnel diventa uno scivolo, e lui scivola. Una luce abbagliante lo acceca. È l’uscita. Sua madre spinge, sua madre grida. È arrivato. Ora è lui a gridare. La sua vita comincia.